Quello della tassazione delle plusvalenze generate dalla compravendita di criptovalute è argomento sempre più caldo e sentito.
Il problema di fondo è rappresentato dal fatto che le sezioni del Testo Unico delle Imposte sui Redditi dedicate ai redditi di capitale e ai redditi diversi disciplinano con una certa chiarezza la tassazione dei redditi derivanti da transazioni finanziarie, ma quando sono state scritte le criptovalute non esistevano ancora.
In attesa di un auspicabile intervento legislativo, possibilmente con l’occasione della prossima riforma fiscale, in programma per il 2022, che si spera preveda un trattamento unitario dei redditi di natura finanziaria (abbandonando l’ambiguità della bipartizione tra redditi di capitale e redditi diversi) e la tipicizzazione della tassazione dei redditi legati alle criptovalute, oggi bisogna accontentarsi di districarsi tra chiarimenti di prassi e giurisprudenza.
Per affrontare il problema della tassazione delle plusvalenze da compravendita di Bitcoin il punto di partenza è la posizione assunta dall’Agenzia delle Entrate sul tema, che tendenzialmente assimila le criptovalute alle valute estere, sia per quanto concerne l’imposizione fiscale che gli adempimenti conseguenti.
Non mancano le voci contrarie a questa impostazione, ma bisogna dire che in questo contesto normativo la polemica è sterile: le criptovalute in realtà non sono né valuta nazionale né valuta estera; in mancanza di un trattamento fiscale specifico si dovrà necessariamente procedere all’assimilazione all’una o all’altra fattispecie, ma nessuna delle due situazioni si può dire corretta. In definitiva, in attesa di un auspicabile intervento del Legislatore, bisognerà accontentarsi dell’orientamento di giurisprudenza e prassi.
Per quanto riguarda la tassazione delle plusvalenze da compravendita di valute estere da parte di persone fisiche non esercenti di attività di impresa, le chiavi normative sono essenzialmente due:
- ai senti dell’articolo 67 comma 1 lettera c-ter del TUIR costituiscono redditi diversi imponibili “le plusvalenze […] realizzate mediante cessione a titolo oneroso […] di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti”;
- ai sensi dell’articolo 67 comma 1-ter del TUIR “le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di valute estere rivenienti da depositi e conti correnti concorrono a formare il reddito a condizione che nel periodo d'imposta la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente, calcolata secondo il cambio vigente all'inizio del periodo di riferimento sia superiore a cento milioni di lire per almeno sette giorni lavorativi continui”.
Ricordando che, convertiti, 100 milioni di lire sono 51.645,69 euro, dal tenore letterale della norma si evince che una operazione di compravendita di valuta estera costituisce reddito imponibile solo se la giacenza complessiva supera per sette giorni lavorativi la somma prima indicata.
Tuttavia giurisprudenza e prassi inseriscono nella variabile valutativa dell’imponibilità anche la chiave speculativa, o, per meglio dire, la finalità speculativa che il contribuente voleva conseguire.
Di questo si è occupata la recente sentenza 1505/2/2021 della Commissione tributaria Regionale del Veneto del 6 dicembre 2021: il contribuente aveva ipotizzato che le plusvalenze derivanti dalla cessione di Bitcoin potessero essere considerate non imponibili basandosi sulla Risoluzione 72/E del 02 settembre 2016 dell’Agenzia delle Entrate: questa prevede che, per quanto riguarda la tassazione delle “persone fisiche che detengono i Bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa ,[…] le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa”.
Secondo l’interpretazione del contribuente, la mancanza della finalità speculativa doveva essere assunta come conseguenza della realizzazione delle plusvalenze fuori dall’attività d’impresa; di diverso avviso è invece la CTR del Veneto, secondo la quale, nella situazione in esame, le plusvalenze realizzate sono da considerarsi imponibili, in quanto:
- per la loro entità superano le soglie numeriche e temporali previste dall’articolo 67 comma 1 lettera c-ter del TUIR;
- per la loro rilevanza economica non possono non denotare l’esistenza di una evidente finalità speculativa.
Per cui la CTR del Veneto fondamentalmente adotta l’impostazione di chi assimila le criptovalute alle valute estere e, ai fini dell’imponibilità delle plusvalenze realizzate, propone anche una interpretazione estensiva della normativa esistente, in base alla quale sarebbe determinante la finalità alla base della detenzione dei valori monetari: assumendole come imponibili ogni qual volta la finalità può essere considerata speculativa.
Tra l’altro, in considerazione del fatto che, secondo la sentenza in trattazione, la finalità speculativa poteva essere dedotta dalla rilevanza economica dell’operazione, si potrebbe anche discriminare tra finalità speculativa qualitativa (l’intento) e finalità speculativa quantitativa (la rilevanza dell’operazione).
Chi scrive, in generale, nutre perplessità sul fondamento giuridico alla base delle assimilazioni quantitative di fatti per loro natura qualitativi (come l’inerenza o, come in questo caso, la finalità); ma ciò non toglie nulla al fatto che la valutazione dell’intento speculativo, nel contesto dei limiti previsti dall’articolo 67 comma 1 lettera c-ter del TUIR, è una richiesta non priva di fondamento, in quanto la ratio della norma sembra essere quella di non voler portare a tassazione operazioni di conversione valutaria che non hanno alcun intento speculativo, non quello di creare una sorta di franchigia di non imponibilità per questo genere di operazioni.